Dove finiscono i 13 milioni di quintali di uva da tavola prodotti negli 80.000 ettari di terreno sparsi su tutto il territorio nazionale?
Negli ultimi anni, la quantità di uva e di frutta in generale consumata in Italia è progressivamente diminuita: nel 2010 le famiglie italiane acquistavano annualmente 8.254.164 tonnellate di ortofrutta l’anno, scese a 8.187.742 nel 2011, a 8.023.756 nel 2012 per arrivare alle 7.843.229 tonnellate del 2013 (fonte Ismea).
La commercializzazione dell’uva da tavola risente quindi, al pari di altri reparti ortofrutticoli, di una stagnazione dei consumi. Per questo, è importante sviluppare politiche di promozione e di educazione alimentare e iniziative come Viviana, volte a stimolare la domanda interna e a fare cultura di prodotto.
Il mercato dell’uva da tavola è condizionato comunque da diversi fattori.
L’uva da tavola italiana ha un calendario di commercializzazione molto lungo che parte da giugno e si estende fino a dicembre/gennaio.
Aprono la stagione le varietà di uva che provengono dal distretto di Mazzarrone, nel catanese, e dall’Abruzzo. In entrambi i casi parliamo di uve coltivate in serra.
Seguono quelle precoci siciliane, coltivate in impianti coperti per accelerarne la maturazione, e poi le uve da tavola pugliesi.
Il periodo di maggiore offerta va dalla fine di luglio alla prima settimana di settembre, con frutti provenienti da coltivazione a pieno campo. Le uve che si trovano sul mercato da settembre in poi sono uve tardive, ottenute da campi coperti per ritardarne la maturazione o, infine, uve frigoconservate.
La stagionalità è un elemento fondamentale del mercato dell’uva da tavola italiano.
Per quanto infatti a livello globale la vendita di uva si sia destagionalizzata, in Italia nel cosiddetto periodo di controstagione (da gennaio ad aprile) se ne consuma poca, come testimoniato dalla scarsa quantità di prodotto importato dai paesi dell’emisfero australe che producono esattamente nel periodo diametralmente opposto a quello italiano.
Restando un prodotto ancora stagionale perlomeno in Italia, il listino prezzi dell’uva da tavola è condizionato dalla provenienza geografica e dalla quantità di prodotto presente sul mercato.
Facciamo un esempio: l’uva siciliana che arriva sul mercato a giugno riesce a strappare un prezzo più alto visto che è la prima e unica che risponde all’offerta. A luglio/agosto, quando ormai la produzione è a pieno regime, i produttori pugliesi, le cui uve arrivano a maturazione in quel periodo, riescono a piazzare i loro prodotti a un prezzo più basso.
Al di là della questione dei prezzi, i produttori stanno sollevando il problema dello stallo della richiesta interna.
Altro fattore che influisce sul mercato dell’uva da tavola è la territorialità.
Il maggior consumo di uva si registra al Sud (34-37% del totale). Non è un caso quindi che l’origine geografica incida sugli acquisti, visto che più del 90% dell’uva da tavola è prodotto in Puglia e Sicilia. Nella classifica seguono le regioni del Nord-Ovest con il 27% degli acquisti. Se si analizzano però i volumi di spesa, le distanze si assottigliano a causa del prezzo più elevato nelle regioni di Nord-Ovest.
L’ultimo fattore da considerare per un’analisi completa del mercato interno è costituito dai canali di acquisto dei consumatori finali. Quello che emerge dai dati è che la grande distribuzione sta prendendo sempre più piede rispetto ai canali tradizionali. Nel comparto ortofrutticolo, la fetta di mercato conquistata negli ultimi anni da supermercati, ipermercati e hard discount è salita a oltre il 50% (nel 2004 era al 42%). La crescita della GDO è chiaramente andata a discapito del tessuto dei piccoli dettaglianti, che hanno perso più del 3% della loro presenza sul mercato, e dei mercati rionali, che hanno perso più del 4%. Il cambio di passo che abbiamo descritto è avvenuto anche nel settore dell’uva da tavola con le medesime proporzioni.
Al contrario di quanto accade nel mercato interno, l’export continua a vivere una situazione positiva. A differenza di molti altri settori, l’esportazione dell’uva da tavola italiana non è dovuta alla necessità di smaltire il surplus produttivo, ma è legata a un vero e proprio successo commerciale di alcune varietà storiche come la Regina, l’Italia e la Victoria.
A partire dagli anni ’60 la richiesta internazionale di queste uve ha portato al riconoscimento del potenziale della produzione nostrana nei principali mercati nel Nord Europa. Fino agli anni ’90 si è registrata una lunga stagione di crescita della domanda esterna accompagnata dal rafforzamento di quella interna. Successivamente, si sono verificate diverse fluttuazioni, un picco nel 2001 (in quest’anno si sono sfiorate le 700.000 tonnellate di export) e, infine, un assestamento che continua ancora oggi.
A fronte di una diminuzione nel volume, si è verificato un aumento nel valore per chilo di prodotto, anche grazie all’innalzamento degli standard di produzione, alla diffusione delle certificazioni di qualità, alla maggiore richiesta di prodotti bio, all’investimento in packaging dedicati, ecc.
Questa importante capacità di esportazione fa sì che la bilancia commerciale del settore sia assolutamente in attivo. I dati che si riferiscono all’import, infatti, sono del tutto marginali: se consideriamo quelli del 2008, in Italia sono arrivate circa 19.000 tonnellate di uva, principalmente nel periodo controstagionale. I dati export dello stesso anno rivelano che il volume di uva da tavola esportato superava le 500.000 tonnellate.
Per quanto riguarda le preferenze di gusto, nei mercati esteri si tende ad acquistare uva da tavola più dolce e senza semi, detta apirena.
Il successo di questa varietà d’uva è, in particolare, un caso esemplare di standardizzazione nei consumi e nel gusto. Il mondo produttivo italiano ha saputo rispondere adeguatamente a questa novità riconvertendo la produzione verso varietà senza semi che vengono quasi totalmente esportate. Se fosse dipeso solo dalla richiesta interna, le varietà apirene non avrebbero avuto ragion d’essere poiché il mercato italiano resta tuttora legato a prodotti più tradizionali.
I produttori sono concordi nell’affermare che il principale ostacolo a flussi costanti di export consista nelle variazioni climatiche nei territori ad alta vocazionalità.
La vite è una pianta che richiede un ambiente poco umido e climi caldi. Negli ultimi anni si sono avute stagioni eccezionalmente piovose che hanno causato un eccesso idrico, ovvero una persistente umidità all’interno dei vigneti. L’eccessiva idratazione è nociva per gli acini, soprattutto nell’ultima fase di maturazione, in quanto causa lesioni che comportano il declassamento qualitativo del frutto, l’insorgenza di patologie interne e, di conseguenza, una minore resistenza al trasporto e una scarsa “shelf-life”. Poca durata nel trasporto significa restringere in numero dei paesi destinatari a quelli più vicini, poiché il frutto non è in grado di reggere a un viaggio oltremare di una ventina di giorni.
La globalizzazione, difatti, ha esteso in maniera esponenziale la grandezza del mercato di riferimento per i prodotti ortofrutticoli. Il 2001 è stato un anno di svolta per la commercializzazione dell’uva da tavola: grazie alle condizioni climatiche particolarmente favorevoli, la produzione era aumentata del 2% in volume e del 2,9% in valore.
L’uva da tavola italiana oggi raggiunge anche continenti lontani come l’America (dove si trovano paesi con una produzione molto avanzata come gli USA e il Cile) e l’Oceania (nonostante la crescente presenza australiana). Le esportazioni a lungo e lunghissimo raggio sono anche un mezzo per decongestionare il principale mercato di riferimento per l’uva italiana: quello tedesco.
Se nel 1991 il 47% della produzione destinata all’esportazione veniva acquistato dalla Germania, oggi la quota si è quasi dimezzata. Lo stesso è accaduto per la Francia, passata dal 25% al 13%. Principale motivo di questo spostamento dei flussi è innanzitutto il rafforzamento delle esportazioni nei paesi dell’Est Europa (Polonia, Repubblica Ceca e Romania) che nel frattempo sono entrati a far parte dell’Unione Europea: la Polonia, ad esempio, è oggi il terzo partner commerciale, assorbendo ben l’11% delle esportazioni. Un secondo fattore risiede nel raggiungimento di oltre 50 paesi extra-UE che ad oggi acquistano un quarto della produzione destinata all’export.
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